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Gaetano Basile, nato a Palermo il 16 novembre 1937, giornalista free lance con collaborazioni con Il Mattino, La Sicilia, Oggi Sicilia, Eques, Tutto Equitazione, Cavallo Magazine; cura delle rubriche fisse sul Giornale di Sicilia (Viva Palermo), su Kagome di Tokyo (Rivista di cucina italiana) e ACCI di Tokyo (Giornale dell’Ass. Cuochi Cucina Italiana). Direttore di “Il Pitré” (Quaderni del Museo Etnografico Pitré Palermo) e di “Babbalà” (Testata giornalistica televisiva regionale). Ha anche collaborato con testate televisive come France 3, Yleisradio Finnish Broad. Co., France Inter, ZDF, Nippon TV, RAI e MEDIASET. Autore di testi teatrali e di pubblicazioni. Fra i riconoscimenti: Targa d’argento UPT (1993), Premio Città di Monreale (1996), Premio Sicilia ’97 dell’Ordine dei Giornalisti Siciliani, Premio Telamone di Agrigento (2000), Premio Trinacria d’argento (2001), Accademico Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina (2004), Nomina a componente Commissione Toponomastica Cittadina (2009). Premio dall’Associazione della Stampa Estera in Italia del Gruppo del gusto per la divulgazione (2011).

 

Dal 2006 è Socio Onorario dell'Associazione Spaghettitaliani.

 

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Spaghetti Italiani - Portale di Gastronomia

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La guastedda con la milza

Articolo inserito il 12/09/2007 alle ore 23.40.01

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Quel panino morbido ricoperto di sesamo da cui fuoriescono straccetti di carne, fili sottili di caciocavallo, e gocciolante di bave di strutto bollente, è la follia gastronomica dei palermitani. E’ da mangiare rigorosamente con le mani giacché i rebbi di una forchetta non saprebbero cosa infilzare esattamente in quella grande confusione che vi regna fra polmone, milza, cartilagini, ricotta e caciocavallo.

E’ un piatto perfetto, collaudato da oltre mille anni di vita quotidiana, cioè da quando gli ebrei palermitani lo produssero ad uso esclusivo dei cristiani.

Con la caduta dell’impero romano e l’abbandono delle campagne l’uso dell’olio d’oliva era scomparso perché sostituito dai grassi animali che a buon mercato si potevano reperire nelle città. Con l’arrivo dei saraceni

nell’827, e poco più tardi degli ebrei sefarditi (provenienti dalla Spagna), si pose la necessità dell’olio d’oliva dato che nello halal musulmano e nel kasher ebraico era vietato l’uso dei grassi di origine animale. Arrivarono anche in Sicilia norme alimentari assai severe: niente maiale, niente crostacei e molluschi, e i pesci dovevano avere pinne e squame. Le carni, invece dovevano essere di animali sanissimi con zoccolo bipartito come bue, capra, pecora, bufalo ecc..

Era vietato l’accostamento di carne cotta con il latte e i suoi derivati come ricotta e formaggi.

Il bestiame veniva ritualmente abbattuto nei macelli ebraici e musulmani alla presenza di imam e rabbini e gli uccisori non potevano essere pagati per la loro atroce attività. Il soldo sarebbe stato una sorta di pretio sanguinis non previsto nei sacri testi. In cambio ricevevano le interiora degli animali tranne il preziosissimo fegato. Si pose, dunque, il problema di trasformare in denaro sonante quelle frattaglie.

Non sappiamo chi ebbe l’idea di creare un piatto per i cristiani che mettevano assieme la carne ed i suoi prodotti (ricotta e formaggio) e che usavano esclusivamente strutto e grassi animali. Insomma quella idea di mettere in mezzo ad un panino tutto ciò che era proibito a musulmani e ebrei ebbe un successo che dura fino ai nostri giorni.

E così milza, polmone e cartilagini tratte dalla gola dei vaccini vennero adagiati nel mezzo di un panino rotondo, morbido, caldo, ricoperto di sesamo in compagnia di ricotta e caciocavallo fresco tagliato come stuzzicadenti. E poi bisogna non perdersi il guastiddàru (così si chiama l’artista) che ha movimenti da direttore d’orchestra, compone una sinfonia giacché quei miserabili ingredienti diventano, sotto le sue abili mani, singoli strumenti: tutti assieme vi procureranno quella gioia del palato che è la somma dei singoli apporti organolettici.

In modo discreto vi sarà chiesto se deve essere schietta o maritata che è un po’ come essere di destra o di sinistra: sono due posizioni dello spirito, due modi d’intendere la vita, in breve due filosofie.

Insomma: volete la soluzione economica, solo ricotta, formaggio e l’inzuppata del panino nello strutto bollente?… allora è schietta. Bianca, virginea. Perché è maritata quando c’è la carne: recepite la malizia? Il doppio senso dei vecchi scostumati palermitani?…

Per secoli quella guastedda (dall’antico francese normanno gastel), illusione di un panino con la carne, fu venduto da ambulanti forniti di una sorta di paniere di latta corredato di un fornellino a carbone su cui poggiava il padellone inclinato. Si spostavano fra vicoli e strade polverose provvedendo a rifocillare, a tutte le ore, giovani e vecchi, nobili e proletari, ma tutti quanti rigorosamente cittadini palermitani. Infatti, ancora oggi, solo i palermitani doc, quelli nati entro le antiche mura, mangiano quella prelibatezza inventata dai loro nonni della giudecca.

I palermitani, lo sapete, hanno sempre avuto il puzzino sotto il naso: divisero l’umanità in palermitani e regnicoli. E così davanti al padellone del guastiddàru si vede l’unto del Signore….

Antonino Alaimo, fu il primo ad avere reso stanziale l’ambulante guastiddàru. Infatti, nel 1834, ebbe come liquidazione delle sue spettanze di cuoco presso il principe della Cattolica, i locali dell’ex cappella del palazzo che si trova davanti la trecentesca chiesa di S. Francesco d’Assisi.

Per realizzare il primo pubblico locale dove mangiare la guastedda, lo sfincione e altre leccornie della cucina di strada, riadattò i locali alla bisogna utilizzando alcuni mobili che ancora oggi stanno nel locale. Posto accogliente e pure fortunato giacché nella antistante piazzetta stazionavano carrozzelle pubbliche e carrettini a servizio dei negozianti di pellami, finimenti, valigiai ecc. della strada dei “Cintorinai”. Il successo fu immediato. Nel 1848 nella basilica di San Francesco d’Assisi si riunì il Parlamento siciliano nato dalla rivolta del gennaio di quell’anno. Si racconta che quegli antichi Padri della Patria festeggiarono con guastedda, sfincioni e vino di Marsala l’indipendenza dell’Isola.

Nel 1860 la Focacceria degli Alaimo diventò mensa dei garibaldini. Poi il successo valicò le mura cittadine e non ci fu personaggio illustre in visita a Palermo che non abbia fatto sosta nell’ormai mitico locale. Tra il 1898 e il 1900, Salvatore Alaimo, erede del fondatore, ammodernò quella che era già “Antica Focacceria” commissionando i tavoli in ghisa con il piano in marmo di Billiemi, alla Fonderia Oretea e i mobili alla Ducrot. Oggi è uno dei cento “locali storici italiani”

Il successo della guastedda con la milza dura ancora ai nostri giorni: quella dell’Antica Focacceria ha custodito la sua personalità rinunciando allo scannaruzzatu cioè alle cartilagini della gola dei bovini, ma non sappiamo bene per quale ragione.

I discendenti sono i Conticello che civilmente continuano l’opera degli avi, onorando in tal maniera la Palermo sopravvissuta. A dispetto del fast food d’importazione.

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