GASTRONOMIA IN PILLOLE

A CURA DI LUIGI FARINA

curiosità, storia, letteratura, ...

Gastronomia in pillole
a cura di Luigi Farina

curiosità, storia, letteratura, ...

In questo spazio Luigi Farina ci racconterà curiosità, aneddoti, storia, ..., del cibo e della gastronomia, inserendo anche dei brani tratti dalla letteratura.

INDICE


La Cuscina der Papa dai Sonetti romaneschi di Giuseppe Gioacchino Belli - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


I Timballi del Gattopardo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Una buona forchetta - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Pranzo di Natale in Svezia di Guglielmina Larsson - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


La "Dieta" di Aldo Fabrizi - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Arancina o Arancino, l'antica diatriba fra Palermo e Catania arriva pure a questo...


Antipasto alla siciliana - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Liquori fatti in casa di Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Le camomille di Talleyrand di Gino Adamo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Zeno partecipa ad un triste banchetto - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Antico Perù - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Una Ricetta tutta da provare - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Banchetto alla corte pontificia di Avignone - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Storie di cibo: Sarde a beccafico raccontate da Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Storie di cibo: Il Cacio all'argentiera raccontato da Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


L'uvetta nei dolci - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Ogni musica con la sua cucina: Menu Bossa Nova alla Carmen Consoli - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Musica e cucina: Paola Turci, fantasia e sperimentazione - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Fabrizi e la pastasciutta - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


L'Acquaiola di Totò - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Cibo e sesso da Afrodita - Racconti, ricette e altri afrodisiaci di Isabel Allende - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Uno Chef unico e particolare da "La mia Africa" di Karen Blixen - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Le panadas o impanadas sarde - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Storia di vini: Come nasce il Barolo di Gino Adamo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Le arance siciliane, da un articolo di Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Un papa sommelier - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


I nove gradini del bere - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Buono come il pane - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Modi di dire "culinari": uova e frittate - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


I 3 condimenti del brodetto di Licurgo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Giornata della "salsa" (Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina)


La Parmigiana di melanzane raccontata da Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Carne nobile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Ricetta inserita su spaghettitaliani.com da Pasquale Amendola: Parmigiana di pollo


Ricetta inserita su spaghettitaliani.com da Enzo Coccia: Pizza ai 4 pomodori


Ricetta inserita su spaghettitaliani.com da Rosaria Spadaro: Bucatini al coniglio


13 Dicembre Santa Lucia a Palermo: Festival delle Arancine


Cassata e cannoli palermitani raccontati da Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Birra e sandwich al Quai des Orfèvres tratto da Maigret e il Lettone di Georges Simenon - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Come Bacco scoprì il vino - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Il ragù domenicale napoletano tratto da "Sabato, domenica e lunedì" di Eduardo De Filippo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Un pranzo luculliano? Secondo i punti di vista, tratto da I Tre Moschettieri di Alessandro Dumas - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


"Pani ca' meusa" raccontato da Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


L'Acquavitaro tratto da "Estati felici" di Fulco Santostefano della Cerda, Duca di Verdura - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


De re coquinaria di Marco Gavio Apicio - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Pranzo pantagruelico alla corte di Milano di Gino Adamo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Palermo è... il pane da: "Palermo è ..." di Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


La cucina degli Etruschi - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Il rito della tranquillità - La cura del volto tratto da "Trattato di culinaria per donne tristi" di Hèctor Abad Facioline - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


L'odore delle mele (da "La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita" di Philippe Delerm) - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Il caffè napoletano (da "Questi Fantasmi" di Eduardo De Filippo) - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Risotto alla Cavour - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Canto di una pentola (da "Il grillo del focolare, racconto casalingo di fate" di Carl Dickens) - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Totò e la cucina (dai film di Totò) - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


Ammostata romana (Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina)


Memorie di un gelato a Palermo (Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina)


Gastronomia in Pillole a cura di Luigi Farina

Il ragù domenicale napoletano tratto da "Sabato, domenica e lunedì" di Eduardo De Filippo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

Ampia e linda cucina. L'arredamento è costituito da cose anche modernissime. Sulla parete di fondo, accanto al finestrone, sono state disposte in ordine simmetrico una diecina di antiche forme in legno di cappelli e numerosi attrezzi del mestiere. Sul medesimo punto ci sta un fornello di ferro a quattro zampe, malfermo e arrugginito, e un piccolo tavolo dal ripiano massiccio unto e bruciacchiato dall'uso. Siamo alla conclusione di una magnifica giornata di marzo. L'ultimo sole che entra dall'ampia finestra indora le pareti e fa brillare la nutrita batteria di pentole in rame, fuori d'uso, che è lì al solo fine di testimoniare l'antica tradizione e la solidità finanziaria della famiglia Priore.

Presso il tavolo centrale c'è donna Rosa che sta preparando il tradizionale ragù. Sta legando il girello, con il pezzo d'annecchia (cinque chilogrammi) che dovrà allietare la mensa domenicale dell'indomani. Virginia la cameriera, gomito a gomito con la padrona, affetta cipolle; ne ha già fatto un bel mucchio: ma ne deve affettare ancora. La poverina ogni tanto si asciuga le lacrime o con il dorso della mano o con l'avambraccio: ma continua stoicamente il suo lavoro.

Rosa: Hai fatto?

Virginia (piagnucolando): Devo affettare queste altre due...

Rosa: E taglia, taglia... fai presto.

Virginia: Signò, ma io credo che tutta questa cipolla abbasta.

Rosa: Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione.

Virginia: ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme.

Rosa: E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la Pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola manco se l'uccidevano. Lei usava a tiana e terracotta o la casseruola di rame. L'alluminio non esisteva proprio.
Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di cannecchia e lo metteva in una sperlunga; come si mette un neonato nella connola, poi metteva la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.

Virginia (compiacente): Certo, quando uno ci tiene passione.

Rosa: E quello papà, se non trovava il ragù confessato e comunicato faceva rivoltare la casa.

Virginia: Povera mamma vosta!

Rosa: Ma era pure il tipo che ti dava soddisfazione. Venivano amici e dicevano: Signò ma come lo fate questo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito! L'altra sera ci ha fatto una testa tanta "E, il ragù di mia moglie; di sotto, e il ragù di mia moglie sopra..." e mammà tutta contenta l'invitava; e quando se ne andavano dicevano: ci aveva ragione vostro marito. E si facevano le croci.

Virginia: Vostro marito invece non ci va tanto appresso.

Rosa (con ironica amarezza): Don Peppino non parla; don Peppino è superiore a queste cose. Però si combina un piatto accopputo di Ziti così e qualche volta pure due.

Virginia: Pé mangià magna.

tratto da "Sabato, domenica e lunedì" di Eduardo De Filippo

Un pranzo luculliano? Secondo i punti di vista, tratto da I Tre Moschettieri di Alessandro Dumas - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

Nei "Tre Moschettieri" di Alessandro Dumas vi sono numerosi riferimenti a pranzi e banchetti, fra i quali ho scelto forse il meno rappresentativo, ma forse il più simpatico.
Questo pranzo si svolge a casa dei coniugi Coquenard e vi partecipa Portos, che vi si trovava in cerca di finaziamenti per acquistare il corredo per la guerra.

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...- Il signore nostro cugino, prima di partire per la guerra, ci farà la grazia di pranzare una volta con noi, non è vero'. signora Coquenard? ...

Ben presto arrivò l'ora del pranzo. Passarono nella sala da pranzo, uno stanzone nero posto in faccia alla cucina. ...

Mastro Coquenard entrò sulla sua poltrona a rotelle spinta dalla signora Coquenard, ...

- Oh, oh, - disse, - ecco una minestra che invita.

- Che diavolo possono sentire di straordinario in questa minestra? - disse Porthos alla vista di un brodo abbondante, ma pallido e del tutto cieco, e sul quale nuotavano rare alcune croste come le isole in un arcipelago.

La signora Coquenard sorrise, e a un suo segno tutti si sedettero in fretta.
Padron Coquenard fu il primo a esser servito, poi Porthos: in seguito la signora Coquenard riempì il suo piatto e distribuì le croste senza brodo agli scrivani impazienti. ...

Dopo la minestra, la domestica portò un pollo lesso, magnificenza per cui le palpebre dei convitati si dilatarono tanto da sembrare prossime a fendersi. ...

Il povero pollo era magro, e lo rivestiva una di quelle pelli grosse e irte di penne, che le ossa non riescono a forare nonostante i loro sforzi; certo, era stato cercato a lungo prima che lo scovassero sul bastone da pollaio sul quale si era ritirato a morir di vecchiaia.
« Diavolo! - pensò Porthos; - ecco una cosa molto triste: ìo rispetto la vecchiaia, ma non l'apprezzo molto lessata o arrostita ».

E sì guardò attorno per vedere se la sua opinione era condivisa: ma, tutt'al contrario di lui, non vide che occhi fiammeggianti, i quali divoravano in anticipo quel sublime pollo, oggetto del suo disprezzo.

La signora Coquenard trasse il piatto a sé, staccò con destrezza le due grandi zampe che pose nel tondo di suo marito; tagliò il collo che mise in disparte per sé con la testa; levò l'ala per Porthos, e riconsegnò l'animale alla domestica che l'aveva portato ...

Invece del pollo, fece il suo ingresso un piatto di fave. Un piatto enorme nel quale alcuni ossi di montone, che di primo acchito si sarebbero potuti credere rivestiti dì carne, facevano finta di mostrarsi.

Ma gli scrivani non furono gli zimbelli di una tal soperchieria, e le facce lugubri divennero volti rassegnati.

La signora Coquenard distribuì questa pietanza ai giovanotti con la moderazione di una buona massaia.

Era venuta la volta del vino. Mastro Coquenard versò da una bottiglia dì arenaria, assaì smilza, un terzo di bicchiere a ognuno dei giovani, ne versò a se stesso in proporzioni press'a poco uguali, e la bottiglia passò subito dalla parte di Porthos e della signora Coquenard.

I giovani finivano di colmare il bicchiere con l'acqua. Poi, quando ne avevano bevuto la metà, lo riempivano ancora e facevano sempre così; il che, alla fine del pasto, li portava a trangugiare una bevanda che dal colore del rubino era passata a quella del topazio combusto.

Porthos mangiò timidamente la sua ala di pollo ... Bevve anche un mezzo bicchiere di quel vino così misurato, e riconobbe l'orribile vinello di Montreuil, terrore dei palati degli intenditori. ...

- Andate, giovanotti, andate a digerire lavorando, - disse gravemente il procuratore.

Usciti gli scrivani, la signora Coquenard si alzò, e trasse da una credenza un pezzo di formaggio, un po' di marmellata di mele cotogne, e un dolce con mandorle e miele fatto da lei.

Mastro Coquenard aggrottò le sopracciglia perché vedeva troppa roba: Porthos si morse le labbra perché vedeva che non c'era da levarsi la fame.

Guardò se ci fosse ancora il piatto delle fave: il piatto delle fave era scomparso.

- Succulento davvero! - esclamò mastro Coquenard agitandosi sulla sedia; - un vero convito: "epulae epularum" Lucullo pranza da Lucullo.

Porthos guardò la bottiglia che gli era vicina e sperò di poter desinare con pane, formaggio e vino, ma il vino mancava, la bottiglia era vuota: il signore e la signora Coquenard non sembrarono accorgersene.

« Sta bene, - disse fra sé Porthos, - adesso ho capito ». Passò la lingua su un cucchiaio di marmellata e si invescò i denti nello sciropposo dolce della signora Coquenard.

« Ora, - continuò a dire fra sé, - il sacrificio è consumato. ...

Il moschettiere tornò a casa sua con una fame rabbiosa. ...

dal romanzo "I Tre Moschettieri" di Alessandro Dumas - Capitolo XXXII - Pranzo da un procuratore


"Pani ca' meusa" raccontato da Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

...Adesso vorrei parlarti di un piatto tipicamente palermitano, il cui successo dura da più di 1.000 anni, il panino con la milza, che è pure un test di palermitaneità, che è un piatto molto curioso. Innanzitutto bisogna precisare una cosa, che la gente non sa, quando si parla di cucina siciliana tutti pensano che i nostri piatti siano in buona parte di derivazione araba, invece non è vero per niente, diciamo che il 60% e anche di più della nostra cucina è di derivazione "cacher", cioè cucina ebraica, non lo sa nessuno. Uno dei piatti più importanti creato dagli ebrei palermitani fu proprio il pane con la milza. Per chi ha frequentato una casa ebraica sa che in cucina ci sono due stipi, in uno ci sono i piatti e le stoviglie per la carne o il pesce, in un'altro invece per i derivati, cioè per il latte, per i formaggi, per l'uovo di pesce, ... debbono essere sempre separati, perchè secondo le norme del cacherut, da dove deriva il cacher, non si devono mettere mai insieme la madre e il suo prodotto, quindi mai mettere il latte insieme alla carne. Nei macelli cacher, che a Palermo si trovava dove adesso c'è l'odierno teatro Santa Cecilia, gli uccisori non potevano essere pagati, perchè non si può pagare un prezio sanguinis, anche se di animale si trattava, allora gli uccisori venivano ricompensati con le interiora degli animali abbattuti, ad esclusione del fegato, che era caro, e quindi si vendeva a parte. Questi poveracci la sera tornavano a casa con dei secchi pieni di budella, polmoni, milza, cuore, ..., e dovevano sforzarsi di trasformare in danaro, e allora osservarono i cristiani, che erano la maggioranza, gli ebrei usavano l'olio d'oliva, i cristiani lo strutto, e abitualmente mangiano le interiora aggiungendoci anche altri ingredienti tipo formaggi, ricotta, ..., allora inventarono un "panino per cristiani", misero insieme la milza, lo scannorozzato, cioè tutte le cartilagini della gola del bue, il polmone bollito, che si taglia a fette, si lascia soffriggere nello strutto bollente, e si mette in mezzo ad un panino in compagnia di ricotta e formaggio. Questa ricetta, che rimonta alla comunità ebraica di Palermo, quindi siamo alla fine dell''800, cioè 1.100 anni fa ha avuto un successo, che dura fino ai nostri giorni. Voglio chiarire anche i due tipi di "focaccia" che si facevano, cioè schetta o maritata, su cui c'è una grande confusione, schetta era l'edizione economica, tutta bianca, di ricotta e formaggio, quindi virginea, quando aveva la carne in mezzo, come dicevano i nostri nonni che erano molto vastasi, "vuol dire che è maritata". Questo è uno dei più grandi successi di quella cucina arcaica...

tratto da una chiacchierata di Luigi Farina con Gaetano Basile

L'Acquavitaro tratto da "Estati felici" di Fulco Santostefano della Cerda, Duca di Verdura - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

...Una figura familiare per le strade della città era quella, dell'"acquavitaro". In un lungo grembiale blu se ne stava accanto a un tavolo costruito apposta per sorreggere conficcati in una specie di reticolato dei lunghi bicchieri. L'acqua era in un vasto orcio di terracotta. Con una destrezza sorprendente aveva modo, bilanciandosi su up ginocchio, di riempire i bicchieri uno ad uno, senza mai versarne una goccia. Da una storta schizzava due o tre gettí di "zambù" e la bibita era pronta. Il tavolo era dipinto a vivi colori con decorazioni di rame e un mazzo di fiori di stagione. I palermitani non erano gran bevitori, ed era raro vedere un ubriaco per la strada, però, specie in tempo d'estate, erano grandi consumatori di limonate, aranciate, latte di mandorla e semplicemente acqua e "zambù", che è un derivato dell'anice...

Tratto da "Estati felici" di Fulco Santostefano della Cerda, Duca di Verdura

De re coquinaria di Marco Gavio Apicio - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

Una delle più antiche pubblicazioni dedicate alla cucina che ci sono pervenute è senz'altro il "De re coquinaria" di Marco Gavio Apicio. Una vera e propria enciclopedia sulla cucina, divisa in 10 libri.

Il I libro parla di vini aromatizzati, vini di rose e di viole, di sciroppi, di salse, di come conservare carni, pesci, miele, dolci, olive, frutta, erbe, tartufi, ...

Il II libro di carni battute, polpette sia di carne che di pesce e delle salse per condirle, salsicce, ...

Il III libro di erbe e derivati delle erbe, ...

Il IV libro di torte di carne o di pesce, di antipasti, ...

Il V libro di legumi

Il VI libro di volatili domestici e selvatici e relative salse per condirli

Il VII libro di arrosti e lessi con relative salse, di prosciutti, di frattaglie, di dolci fatti in casa, di funghi, di tartufi, di uova, ...

L'VIII libro di quadrupedi domestici e selvatici e relative salse.

Il IX libro di pesci, crostacei, molluschi, ...

Il X libro di pesci con relativi salse.

Questo trattato fu più volte rispolverato nel tempo e diede una traccia da cui partire per arrivare alla cucina moderna italiana.

Pranzo pantagruelico alla corte di Milano di Gino Adamo - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

Nel 1368, in occasione del matrimonio tra la giovane e bella milanese Violante, figlia di Galeazzo II, Signore di Milano, e Lionello d'Inghilterra, duca di Clarence, ebbe luogo un banchetto principesco che fece epoca per la inusitata profusione dei cibi e la ricchezza dei doni offerti, con magnificenza davvero regale, dal padre della sposa.

Giunto a Milano da Parigi con largo seguito di nobili e cavalieri la vigilia di Pentecoste (27 maggio 1368), Lionello, duca di Clarence, veniva unito qualche giorno dopo in matrimonio con la nobile pulzella italiana. La solenne cerimonia delle nozze verrà officiata il 5 giugno di quell'anno dal vescovo di Novara.

Subito dopo il duca di Clarence e la sposa, con il folto seguito dei convitati, si recarono all'Arengo, dov'era stato imbandito il grande pranzo.

Secondo il resoconto degli storici dell'avvenimento, le mense in realtà furono non una, bensì due. Nella prima sedeva lo sposo, il conte di Savoia, il vescovo di Novara, i figli di messer Bernabò, Marco e Ludovico. Era fra i convitati anche un personaggio assai illustre, il poeta messer Francesco Petrarca, seduto accanto ad altri cavalieri e nobili forestieri, in gran parte pisani, alleati allora dei Visconti. All'altra mensa, presieduta da Regina della Scala, moglie di Bernabò, sedevano le donne, le quali portavano in tavola i piatti alla prima mensa, cioè 50 piatti per ciascuna portata. Le portate furono ben 18; ogni portata era inoltre duplicata, in quanto composta di due vivande, una a base di carne e un'altra a base di pesce, corredata da un dono personale per ciascun convitato, ad ogni singola portata.

La prima imbandigione, doppia (appunto, per le carni e i pesci), era costituita da due porcellini dorati che mandavano fuoco dalla bocca e da una varietà di pesce chiamato "porchetta dorata". La seconda presentava lepri dorate con lucci. La terza era occupata da un enorme vitello arrosto, tutto dorato con trote (anch'esse dorate). La quarta era composta di quaglie e pernici, ovviamente dorate, accompagnate da trote arrostite. La quinta portata comprendeva anatre e aironi in quantità. La sesta offriva invece carne di manzo, capponi grossi con salsa d'aglio e storioni. La settima dispensava ancora capponi e carne in salsa di limone con pesce intinto nello stesso tipo di salsa. L'ottava si sbizzarriva in svariati pasticci di carne di bue accompagnati da altri pasticci di anguille grasse.

La nona portata offriva, invece, gelatine di carne e di pesce (lamprede) e poi, via via, capretti arrosto, lepri e caprioli, carne di cervo e di bue, capponi e pollastri in salsa rossa e verde, e ancora conigli, pavoni, cigni, anatre arrostite. Per finire con le ultime portate di giuncate, formaggi e frutta...

Nel corso delle imbandigioni il munifico anfitrione presentò anche 76 cavalli ai baroni e gentiluomini del principe inglese.

Violante portava in dote al marito ben 200 mila fiorini d'oro e la signoria delle terre angioine in Piemonte: le città di Mondovì, Cuneo, Cherasco, Demonte. Ma, invero, il principe inglese godette poco di tanto ben di Dio, giacché appena tre mesi dopo il sontuoso matrimonio, lo sventurato si ammalò e, nel giro di pochi giorni, morì.

Gino Adamo

Palermo è... il pane da: "Palermo è ..." di Gaetano Basile - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

Un amico che abita in Francia da molti anni, mi disse che di Palermo gli mancava solo il pane "... sai... la mafalda col cimino sopra ...".
E noi palermitani diciamo "buono come il pane" in tempi di crackers e di merendine più latte e meno cacao.
"Quelli che mangiano il pane..." disse Omero per distinguere i popoli civili dai barbari che il pane non lo conoscevano.
Scrisse Ateneo che ad Atene si facevano settantadue tipi di pane, e quattordici ce n'erano a Selinunte.
Il pane di frumento, di orzo, di avena, di segala, fu specialità delle città greche di Sicilia.
Un chicco di grano cambiò, in effetti, la vita dei nostri antichi: ne rivoluzionò la storia, la cultura, la vita.
Il lievito per fare gonfiare la pasta pare che l'abbia inventato una serva per fare dispetto alla padrona: gettò nell'impasto di acqua e farina, i resti della birra dei
padrone, una bevanda molto diffusa nell'antichità. Soprattutto nell'antico Egitto.
Insomma, inventò il lievito di birra che noi, in siciliano chiamiamo giustamente criscenti.
Dai Faraoni il segreto finì sulle tavole di Arabi ed Ebrei: "Betlemme" significa esattamente "casa del pane"...
Pare che proprio da noi, in Sicilia, lo conobbero i Romani, ma soltanto duecento anni prima della nascita di Cristo.
Si faceva con grano duro vestito, il "farro" per cui scrisse Nico Valerio che l'impero di Roma, più che col ferro delle spade, si fece col farro nelle scodelle.
Gli imperatori romani usarono il pane nelle campagne elettorali, come faranno più tardi i nostri politici con la pasta: ve lo ricordate?
"Panem et circenses" gridavano i romani e il pane se lo fecero con il grano che Verre rubava in Sicilia che era il "granaio di Roma".
Ma non solo quello rubò quel proconsole.
Per il pane si rovesciarono governi e si cacciarono via pure i re: "ordine pane, disordine fame" si diceva quando scoppiavano le "rivolte del pane".
Nel 1862, la "tassa sul macinato" imposta dal nuovo regno d'Italia, provocò sommosse che costrinsero i Savoia ad annullare il decreto.
Vi voglio ricordare che fu proprio il pane che contribuì a dare alle nostre nonne quella "funzione sociale" che è il matriarcato: facendo il pane in comune con le altre donne erano informate di tutto. Per farla breve, con il pane era nato il curtigghiu, o se preferite il "gossip" che mi pare più elegante.
Plinio il pane se lo mangiava con le ostriche, Pascoli con un filo d'olio sopra, mio nonno con i mandarini; Veltroni lo adora con la cioccolata....
Questione di tempi e di gusti.
I palermitani hanno un vero culto per il pane: tutti sono informatissimi sugli orari della sfurnata, perché a tavola il pane deve arrivare caldo di forno.
Le nostre passioni per il pane sono come quelle politiche: c'è chi stravede per la mafalda e chi per il parigino.
Scalette, rosette, sfilatini, come partiti con un loro pubblico fedele e devoto: non provate neppure a farli cambiare d'opinione.
I nostalgici del buon tempo antico ricordano ancora, con le lacrime agli occhi, il "cimi torti" e il "makallè", mentre coloro che si sono inurbati vi tortureranno cantandovi le gioie della vastedda o del vastdduni (... questione di dimensione...) pani contadini di forma rotonda.
Il filone italiano, da noi si chiama ancora pistuluni dal ricordo delle prime armi da fuoco portatili, mentre la cucchia, ovvero la coppia, é "risultato binario" di due
pistuluni messi assieme...
Grande importanza ha sempre avuto nel nostro pane il ciminàuru dal greco "kyminon àgrion", ritradotto nel quasi italiano "cimino" che, giustamente Zingarelli indica come parte superiore della canna".
Se proprio volete chiamarlo in italiano dire pure "sesamo". Anche se non si aprirà un bel niente.
Nella civiltà contadina di una volta, il pane si faceva nel forno di casa: il pane, non dimentichiamocelo, fu la base della nostra alimentazione.
Spesso mangiato da solo, anzi pani e cutieddu (pane e coltello), come si diceva scherzando pure sulla miseria!
Ma, come dicono i contadini pani e vinu 'nforzanu lu schinu...
Vorrei invitarvi ad avere più rispetto per il pane: non buttiamolo via.
"Un tozzo di pane" rappresentava una volta la carità e invochiamo "il nostro pane quotidiano" come segno della benevolenza divina.
"Guadagnarsi il pane" si chiamava un tempo l'attività lavorativa.
Quando ancora c'era il lavoro.

Tratto da: "Palermo è ..." di Gaetano Basile

La cucina degli Etruschi - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

La cucina degli Etruschi si basava innanzi tutto sul farro la cui minestra era molto diffusa in tutte le classi sociali, così come basilare era l'uso dei legumi come lenticchie, ceci, fave. Si faceva anche uso di carne bovina, ovina, suina e di cacciagione, soprattutto di cervi e cinghiali che venivano cucinati alla brace su treppiedi e graticole o in grandi calderoni di bronzo ed erano riservati alle classi più abbienti.

I banchetti erano vere e proprie cerimonie che testimoniavano l'appartenenza sociale e non doveva mancare il pesce, visti i ritrovamenti di ami e di reti; ma certamente questo alimento era meno diffuso rispetto alla carne perché la disponibilità era decisamente inferiore.

Diffusissimo era l'uso del latte e dei suoi derivati, visto che l'allevamento degli ovini, caprini e bovini era intenso, specialmente nella parte meridionale dell'Etruria.

L'alimentazione, in tutte le classi sociali, veniva arricchita con verdura e frutta che nella buona stagione veniva seccata e perfino esportata verso la Gallia. I condimenti erano prevalentemente di origine animale, ma a partire dal secolo VII a.C. veniva prodotto anche l'olio d'oliva che era usato principalmente nell'industria degli unguenti e dei profumi, ma anche nella preparazione dei cibi.

La bevanda di base, l'unica di cui ci sono giunte testimonianze, è il vino, proveniente dalla Grecia nel corso del VIII secolo a.C., ma già dal secolo successivo prodotto in tutta l'Etruria e perfino esportato in varie regioni del Mediterraneo.

Questo vino era fortissimo e per essere bevuto, doveva essere mescolato con abbondante acqua.

Il rito della tranquillità - La cura del volto tratto da "Trattato di culinaria per donne tristi" di Hèctor Abad Facioline - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina


...Pochi conoscono e meno ancora riconoscono l'efficacia della cura che passo a spiegare. Però è, forse, l'unica ricetta che non delude mai. Ho voluto chiamarla la "cura del volto", perché non c'è chi non abbia memoria di un gruppo non molto numeroso di visi che, a vederli, provocano allegria.

Il rito della tranquillità è il seguente. Due sedie e un tavolo, un paté di fegato di volatile, qualche fetta di pane fresco integrale tostata, una bottiglia ghiacciata di vino Sauternes, e di fronte a te il viso dell'amico, dell'amica, il volto che conosci, uno di quelli che al solo vederli ci restituiscono la calma.

Il paté, agli amici, ricorda che sono carne. Il pane non fa dimenticare loro che tutto nasce dalla terra e tutto vi ritorna. Lo spirito del vino Sauternes ravviva quello che più ci tiene vivi: la possibilità di unire due pensieri...

Tratto da "Trattato di culinaria per donne tristi" di Hèctor Abad Facioline

L'odore delle mele (da "La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita" di Philippe Delerm) - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina

...Entriamo in cantina. E subito ci colpisce. Le mele sono lì, allineate sui graticci - cassette da frutta capovolte. Non ci pensavamo. Non avevamo nessuna intenzione di lasciarci sommergere da un tale spleen. Ma è inutile. L'odore delle mele è un'onda travolgente. Come avevamo potuto fare a meno per tanto tempo di quest'infanzia aspra e dolce?

Devono essere deliziosi i frutti avvizziti, di quel falso prosciugamento dove in ogni grinza sembra essersi insinuato un sapore intenso. Ma non abbiamo voglia di mangiarli. Non vogliamo trasformare in sapore identificabile il potere fluttuante dell'odore. Dire che hanno un buon profumo, un profumo forte? No, c'è ben altro... Un odore interiore, l'odore di un sé migliore. Lì c'è racchiuso l'autunno della scuola. Con l'inchiostro blu verghiamo sul foglio pieni e filetti. La pioggia batte sui vetri, la serata sarà lunga...

Ma il profumo delle mele non è solo il passato. Si pensa al tempo che fu per via della portata e dell'intensità, di un ricordo di cantina umida, di solaio buio. Ma è da vivere lì, da tenere lì, in piedi. Abbiamo alle spalle l'erba alta e l'umidore del frutteto. Davanti, come un respiro caldo che si sprigíona nell'ombra. L'odore ha preso tutti i marroni, tutti i rossi, con un po' di acido verde. Lodore ha distillato la morbidezza della buccia, la sua impercettibile rugosità. Abbiamo le labbra secche, ma sappiamo che questa sete non deve essere placata. Non succederebbe niente a mordere la polpa bianca. Bisognerebbe diventare ottobre, terra battuta, volta di cantina, pioggia, attesa. L'odore delle mele è doloroso. E' l'odore di una vita più intensa, di una lentezza che non meritiamo più...

Tratto da "La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita" di Philippe Delerm