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Spaghetti Italiani - Portale di Gastronomia

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Agli albori del XIX secolo, la rivoluzione industriale, divisa sul piano gastronomico fra grande cucina e cucina borghese, deve fare i conti con i gravi problemi dell’emergente “quarto Stato”, che, figlio della Rivoluzione francese, non può ignorare a lungo le angosce di sostentamento che assillano la gente comune (leggi “proletariato”), e il privilegio di pochi non aiuta certo a risolverli: anzi. A parte migrazioni, guerre, lotte politiche, la rapida trasformazione della struttura economica dei paesi più evoluti comporta notevoli implicazioni economiche e sociali:

fuga dalla miseria dell’agricoltura, fenomeni di inurbamento (“selvaggio”), esplosione demografica, e via dicendo. Nelle città più grandi, cresciute in fretta (invero, troppo in fretta), sono molte le persone che debbono quotidianamente spostarsi per raggiungere lontani posti di lavoro, spesso situati nelle desolate periferie industriali.

Gli operai mangiano a mezzogiorno portandosi le provviste da casa. Un pasto caldo è rimandato alla sera. Anche il lavorante e il piccolo artigiano comprano il pane (la mica) e vanno a bottega; poi, all’ora dello spuntino, si recano dal pizzicagnolo per acquistare il cartoccio di companatico da consumare sul posto, anche per strada, dove capita. Non diversamente da ciò che fanno stradini, tranvieri, cavallanti, ecc.

Le mense industriali si svilupperanno solo più tardi.

Nasceranno da queste medesime esigenze i bar-tavola calda, i vassoi sotto plastica (tipici delle colazioni in aviogetto), le macchine da caffè, da brodo, da coca cola. Per usare il gergo americano: i “quick” e gli “snacks”. Insomma, il mordi e fuggi della gastronomia da lavoro, tuttora in voga.

A restare frugale è il contadino, attaccato ai prodotti della terra. Tipica la sua alimentazione a base di maccheroni, pizze e cocomeri; nei giorni di festa il contadino meridionale si concede il lusso della lasagna imbottita (con formaggi, salsicce, polpette, sugo, ecc.). Poi c’è anche la “bomba di riso”, ripiena di carni, formaggi, salumi: simile, per molti aspetti, all’«arancina di carne (o di burro)» che si consuma a Palermo. Intorno alla metà del secolo i golosi troveranno di che soddisfarsi con il gelato, che anche allora era molto diffuso (era chiamato “sorbetto”).

L’intensificarsi del traffico delle merci, grazie al continuo progresso tecnico dei mezzi di comunicazione (treni, navi, aerei), ha dato forte impulso alle cucine regionali.

A questo proposito vien fatto di pensare al caso di Milano che, dopo l’apertura del tunnel del Sempione, s’impone come metropoli internazionale: è lo splendido periodo dell’Esposizione Universale del 1906. Ne pagherà, tuttavia, lo scotto perdendo gradualmente la sua tradizione gastronomica fatta di lardo, burro, zafferano e verze, per ricevere in allegra contropartita spaghetti al pomodoro e pizze napoletane. E’ il segnale del dilagare del pomodoro in tutte le preparazioni possibili e immaginabili, che caratterizzano nel mondo la cucina italiana: pastasciutte e zuppe, umidi e stufati, bistecche e (ovviamente) … pizze!

 

Per saperne di più, consigliamo i seguenti volumi di approfondimento:

A. Willan: “I Maestri cucinieri” (Fabbri, 1977)

L.Cerini: “Il cuoco gentiluomo” (Mondatori, 1980)

 

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