In tempi anteriori che in pratica giungono fino al secolo scorso, era di frequente consuetudine fra popoli dell’estremo Nord canadese (eschimesi e aleuti), stanziati e dispersi in gruppi familiari nella gelida regione artica e subartica, di fare a meno del fuoco, ossia dell’indispensabile processo di cottura: nella fattispecie, quasi sempre si trattava di cottura di pesce, che quindi veniva spesso divorato appena pescato. Alcune popolazioni native di ceppo algonchino, prossime alle estreme terre degli eschimesi del subartico canadese, diedero a quegli strani, piccoli uomini infagottati in grosse pellicce, che abitavano gli igloo, il nome spregiativo di “eschimesi” (espressione derivante dal Chippewa: «Ashkimeq»), ossia di “mangiatori di carne cruda”.
La fame nasce da un istinto vitale ancestrale, che per potenza supera un altro istinto primordiale: quello sessuale, poiché, mentre di sesso si può fare a meno, di inedia, invece, si muore. Fame e sesso, e dunque cibo e istinto riproduttivo, sono state due potenti molle che hanno profondamente influito sul corso della storia dell’Homo Sapiens Sapiens. Tuttavia, ancora oggi si rimane stupiti dinanzi allo scarso spazio che viene solitamente dedicato nei libri di storia e di letteratura al fenomeno. Al confronto ai testi concernenti le guerre, i libri che riguardano le carestie sono ben pochi.
Se l’aspetto della fame come fenomeno di carenza di cibo è quello più immediato, esso non è tuttavia il solo e talora neanche il più importante. In passato ogni carestia era attribuita quasi sempre a fenomeni naturali (il clima e le catastrofi) indipendenti dall’uomo. Ma la carenza di alimentazione si manifesta non solo con una minore disponibilità di cibo, e con l’assenza di certe sostanze che provocano malattie, ma anche con gli aspetti culturali che sono strettamente connessi con l’alimentazione. E’ stato detto che l’uomo è molto spesso ciò che mangia. In altri termini l’uomo si identifica con la peculiare concezione che la cultura in cui vive dimostra verso il cibo, un fattore che limita spesso in maniera rilevante la quantità, qualità e varietà degli alimenti. Basti rammentare come certi tabù alimentari, che sussistono ancora oggi in tutte le popolazioni, sottraggono all’alimentazione molte specie. Per dirne una ben nota, il divieto religioso di mangiare carne suina che domina nel mondo islamico.
In età arcaica, lo sfruttamento delle risorse di un territorio attraverso la coltivazione (paleo-agricoltura, ma anche caccia e raccolta) non è in genere avvenuto in dipendenza di astratti bisogni alimentari, ma in connessione con il processo di formazione economico-sociale: dunque, all’origine di ogni società.
L’alimentazione è una forma di comunicazione, è cioè un fatto culturale che riflette determinate situazioni sociali, analogo, sotto questo profilo, al linguaggio o ai sistemi di parentela. Con ciò ovviamente non s’intende svalutare l’aspetto economico dell’alimentazione, che anzi è da considerare determinante per quel che riguarda la disponibilità e l’appropriazione di eccedenze nell’ambito di un sistema produttivo, anche tecnologicamente arretrato. Né si può sottovalutare il problema creato in situazioni storiche diverse, segnatamente oggi, da una struttura produttivo-distributiva mondiale degli alimenti che sembra istituzionalizzare la fame per milioni di persone. L’alimentazione umana non può essere ridotta soltanto a fatti di mera nutrizione.
Non per nulla è da tempo assodato dagli studiosi di antropologia culturale che la fame e la carenza alimentare di uno o più cibi costituiscono fatti legati ad un’ideologia generale di una popolazione (o di una sua frazione). La differenza tra fame calorica e carestia non è soltanto questione di grado: la prima è, difatti, un fenomeno frequente, spesso cronico negli strati più poveri della popolazione, mentre la seconda è occasionale: censita come tale soprattutto se riguarda strati di popolazione che normalmente non soffrono di ristrettezze alimentari. La fame calorica nei casi più gravi o prolungati conduce alla morte. Al contrario la «fame specifica» mantiene in vita, ma male. Un’alimentazione deficitaria, mancando di alcuni elementi essenziali, provoca malattie da carenza; il cattivo stato di salute indebolisce la resistenza del corpo, che non riesce a contrastare efficacemente una miriade di malattie infettive: dalla tubercolosi alla malaria, alla dissenteria. Va da sé che l’effetto congiunto della cattiva alimentazione e della malattia è solitamente fatale.
Inoltre, è da dire che chi considera il problema della fame esclusivamente in termini di carenze di calorie e di sostanze specifiche (vitaminiche o proteiche), tende a credere che la soluzione consista nella distribuzione di cibi più ricchi di vitamine e proteine; in breve, più abbondanti e meno cari. Da qui l’invio nelle zone più misere del pianeta di grandi quantitativi di latte in polvere o di farina di pesce. Ma occorre chiarire che la fame non è - sul piano culturale - un semplice bisogno fisiologico, sicchè, il più delle volte, essa non è appagata da un alimento qualunque. Difatti, la fame non è solitamente vissuta come necessità di proteine o vitamine, bensì come il desiderio intenso di particolari cibi, il cui consumo corrisponde all’aspettativa che una determinata società produce nei suoi membri.
I progressi tecnologici attuali sembrano aver sconfitto la fame, ma non poche volte i nuovi sistemi di coltivazione hanno trasferito la fame in altri spazi, mentre studi recenti hanno ormai sfatato l’immagine di una società primitiva oppressa dalla fame, creando - anzi - l’idea di una società primitiva, tutto sommato, opulenta.
In definitiva, si può concludere che l’aspetto biologico della fame sembra ovunque essere stato subordinato al suo aspetto sociale.
Parte
II
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