Un tempo, chi
produceva il vino in casa seguiva indicazioni
che sono valide ancora oggi, sia nella "formula"
per mescolare le uve sia nella tecnica della
vinificazione. Ognuno, però, aveva un piccolo
segreto che non confidava a nessuno e al quale
attribuiva la buona riuscita del vino. Quando il
Lambrusco non riusciva bene, invece, c'era
sempre pronta una muta responsabile: la colpa
era scaricata sulla luna. L'anno successivo, in
genere, un piccolo aggiustamento alla
proporzione delle uve bastava a rimediare al
disastro enologico della stagione precedente.
A fare il vino, in
genere, pensava il capofamiglia, che in autunno
si chiudeva in cantina per una settimana e
provvedeva quasi da solo al ciclo completo della
lavorazione. La fermentazione, secondo la
stagione fosse più o meno calda, durava due o
tre giorni. Quando il vino iniziava a "bollire",
era il momento, insieme col primo assaggio, di
decidere se travasarlo dal tino per passarlo
nelle damigiane o lasciarlo ancora un po' a
prendere sapore e colore dalle vinacce. Se
restava in damigiana, attendeva la luna buona
per essere imbottigliato e tappato. Ai primi
caldi estivi, era pronto da bere, con la sua
bella spuma violacea, capace di riempire in un
attimo la pancia del bicchiere.
Chi faceva il vino
in casa non si accontentava quasi mai di
produrre soltanto quello migliore. Levato dalla
botte "al vèin scèt", il vino schietto,
toglieva il "cappello" di vinacce ormai secche
(l'operazione, in dialetto, si chiama "sgraspadùra"),
aggiungeva altra uva e il mattino successivo
otteneva un vinello ("vèin sopè") di
cinque o sei gradi. Ancora molto gradevole, era
molto adatto per accompagnare la colazione del
mattino, che un tempo, in campagna, era a base
di gnocco e ciccioli, o per alleviare l'arsura
dei pomeriggi di solleone durante il lavoro nei
campi. Chi non s'accontentava neanche di questo
"secondo vino" (o "vèin sutìl", vino
sottile, annacquato) voleva sfruttare il
residuo, impalpabile, tenore zuccherino
dell'uva, gettava altra acqua sulle graspe
esauste. Con un rozzo torchietto ricavava "al
turciòun" (il nome derivava chiaramente
dall'operazione di torchiatura) e "al
puntalòun". Nel secondo caso, il nome era
ricavato dall'abitudine di puntellare le vinacce
contro il soffitto della cantina perchè
restassero immerse nell'acqua del tino. Se ne
ricavava un vinello di appena due o tre gradi,
in pratica acqua colorata, che era bevuto anche
dalle donne e dai bambini e si trovava soltanto
sulle tavole più povere.
Oggi, chi afferma
che questo è un vino di serie B senza quarti di
nobiltà si sbaglia di grosso. Il Lambrusco (Malaparte
lo definì "il più garibaldino del mondo, il
più generoso, il più libero e il più italiano
dei vini") vanta una storia che pochi altri
vitigni italiani possiedono. A sbaragliare i
detrattori dell'unico "champagne rouge"
italiano (a fargli concorrenza c'è solo la
marchigiana Vernaccia di Serrapetrona, ma in una
limitatissima produzione e in versione solo
amabile) basterebbe ricordare che è il vino
rosso italiano più consumato nel mondo. Ha
conquistato in fretta i gusti dei consumatori,
perchè è un vino fresco, beverino, naturalmente
frizzante, proprio le doti più richieste oggi
dal mercato. I vini a lunga conservazione e di
grande stoffa sono ancora apprezzati dagli
intenditori, ma non più consumati nella misura
di un tempo. Con le esigenze alimentari sono
mutati anche i gusti. Come ci siamo disabituati
a cibi pesantemente calorici, un tempo
giustificati dal lavoro più lungo e faticoso,
dal moto solo a piedi e dalla permanenza in
ambienti poco riscaldati, così preferiamo
abitualmente bevande meno alcoliche, che non
appesantiscano l'organismo e lascino lucido il
cervello. Il Lambrusco, insomma, è un vino
antico nato moderno. È giovane, non troppo
alcolico, di pronta beva, dotato di gran
personalità ma non impegnativo, ricco per natura
di quella liberatoria anidride carbonica che in
altre bevande l'industria aggiunge
artificialmente per renderle più gradevoli al
palato.
Il vitigno
Lambrusco appartiene a una famiglia complessa.
Molti ampelografi (studiosi della
classificazione della vite nelle specie e
varietà coltivate) l'hanno fatto oggetto della
loro attenzione. Il conto dei "cultivar"
individuati sarebbe troppo lungo. Il giornalista
e scrittore modenese Paolo Monelli, il primo a
capire nell'Italia del "boom" che anche il vino
meritava una fatica letteraria in "O.P., Optimus
Potor, ossia il vero bevitore", definì il
Lambrusco "rusticano al gusto e profumato di
viola, che gorgoglia e minaccia come un vecchio
vino generoso che invecchiare non sa". Chi
pretende che vantino nobiltà solo i vini rimasti
chiusi per anni in bottiglia? Chi sostiene che
esiste una classifica enologica dove i vini
invecchiati prevalgono su quelli beverini? Chi
crede che il Lambrusco, ma anche altri ottimi
vini "provinciali" senza bisogno di lungo
invecchiamento (Sangiovese, Gutturnio e
Teroldego, per fare solo tre esempi), perda alla
grande il confronto con il Barolo e il
Barbaresco? L'affermano i produttori piemontesi,
rimasti tra i pochi in Italia a proporre vini da
invecchiamento, una filosofia enologica che
merita gran rispetto ma contrasta con le leggi
del mercato. Il consumatore beve sempre meno
vino e lo vuole senza le controindicazioni di un
elevato tenore alcolico. Per le sue eccezionali
caratteristiche di vino digestivo e sgrassante,
il Lambrusco è fatto su misura per i piatti
della nostra sapida cucina, bisognosi delle sue
bollicine profumate di viola per sembrare più
leggeri. Un matrimonio fra i più riusciti della
cucina italiana, che sposa un vino "selvatico" a
una gastronomia non molto raffinata ma che non
tradisce mai chi l¹apprezza.
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