Novembre

2003

Spaghetti Italiani - Portale di Gastronomia

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Quando si producevano per l¹uso domestico "vèin scèt" ma anche "vèin sopè", "turciòun" e "puntalòun"

Un tempo, chi produceva il vino in casa seguiva indicazioni che sono valide ancora oggi, sia nella "formula" per mescolare le uve sia nella tecnica della vinificazione. Ognuno, però, aveva un piccolo segreto che non confidava a nessuno e al quale attribuiva la buona riuscita del vino. Quando il Lambrusco non riusciva bene, invece, c'era sempre pronta una muta responsabile: la colpa era scaricata sulla luna. L'anno successivo, in genere, un piccolo aggiustamento alla proporzione delle uve bastava a rimediare al disastro enologico della stagione precedente.

A fare il vino, in genere, pensava il capofamiglia, che in autunno si chiudeva in cantina per una settimana e provvedeva quasi da solo al ciclo completo della lavorazione. La fermentazione, secondo la stagione fosse più o meno calda, durava due o tre giorni. Quando il vino iniziava a "bollire", era il momento, insieme col primo assaggio, di decidere se travasarlo dal tino per passarlo nelle damigiane o lasciarlo ancora un po' a prendere sapore e colore dalle vinacce. Se restava in damigiana, attendeva la luna buona per essere imbottigliato e tappato. Ai primi caldi estivi, era pronto da bere, con la sua bella spuma violacea, capace di riempire in un attimo la pancia del bicchiere.

Chi faceva il vino in casa non si accontentava quasi mai di produrre soltanto quello migliore. Levato dalla botte "al vèin scèt", il vino schietto, toglieva il "cappello" di vinacce ormai secche (l'operazione, in dialetto, si chiama "sgraspadùra"), aggiungeva altra uva e il mattino successivo otteneva un vinello ("vèin sopè") di cinque o sei gradi. Ancora molto gradevole, era molto adatto per accompagnare la colazione del mattino, che un tempo, in campagna, era a base di gnocco e ciccioli, o per alleviare l'arsura dei pomeriggi di solleone durante il lavoro nei campi. Chi non s'accontentava neanche di questo "secondo vino" (o "vèin sutìl", vino sottile, annacquato) voleva sfruttare il residuo, impalpabile, tenore zuccherino dell'uva, gettava altra acqua sulle graspe esauste. Con un rozzo torchietto ricavava "al turciòun" (il nome derivava chiaramente dall'operazione di torchiatura) e "al puntalòun". Nel secondo caso, il nome era ricavato dall'abitudine di puntellare le vinacce contro il soffitto della cantina perchè restassero immerse nell'acqua del tino. Se ne ricavava un vinello di appena due o tre gradi, in pratica acqua colorata, che era bevuto anche dalle donne e dai bambini e si trovava soltanto sulle tavole più povere.

Oggi, chi afferma che questo è un vino di serie B senza quarti di nobiltà si sbaglia di grosso. Il Lambrusco (Malaparte lo definì "il più garibaldino del mondo, il più generoso, il più libero e il più italiano dei vini") vanta una storia che pochi altri vitigni italiani possiedono. A sbaragliare i detrattori dell'unico "champagne rouge" italiano (a fargli concorrenza c'è solo la marchigiana Vernaccia di Serrapetrona, ma in una limitatissima produzione e in versione solo amabile) basterebbe ricordare che è il vino rosso italiano più consumato nel mondo. Ha conquistato in fretta i gusti dei consumatori, perchè è un vino fresco, beverino, naturalmente frizzante, proprio le doti più richieste oggi dal mercato. I vini a lunga conservazione e di grande stoffa sono ancora apprezzati dagli intenditori, ma non più consumati nella misura di un tempo. Con le esigenze alimentari sono mutati anche i gusti. Come ci siamo disabituati a cibi pesantemente calorici, un tempo giustificati dal lavoro più lungo e faticoso, dal moto solo a piedi e dalla permanenza in ambienti poco riscaldati, così preferiamo abitualmente bevande meno alcoliche, che non appesantiscano l'organismo e lascino lucido il cervello. Il Lambrusco, insomma, è un vino antico nato moderno. È giovane, non troppo alcolico, di pronta beva, dotato di gran personalità ma non impegnativo, ricco per natura di quella liberatoria anidride carbonica che in altre bevande l'industria aggiunge artificialmente per renderle più gradevoli al palato.

Il vitigno Lambrusco appartiene a una famiglia complessa. Molti ampelografi (studiosi della classificazione della vite nelle specie e varietà coltivate) l'hanno fatto oggetto della loro attenzione. Il conto dei "cultivar" individuati sarebbe troppo lungo. Il giornalista e scrittore modenese Paolo Monelli, il primo a capire nell'Italia del "boom" che anche il vino meritava una fatica letteraria in "O.P., Optimus Potor, ossia il vero bevitore", definì il Lambrusco "rusticano al gusto e profumato di viola, che gorgoglia e minaccia come un vecchio vino generoso che invecchiare non sa". Chi pretende che vantino nobiltà solo i vini rimasti chiusi per anni in bottiglia? Chi sostiene che esiste una classifica enologica dove i vini invecchiati prevalgono su quelli beverini? Chi crede che il Lambrusco, ma anche altri ottimi vini "provinciali" senza bisogno di lungo invecchiamento (Sangiovese, Gutturnio e Teroldego, per fare solo tre esempi), perda alla grande il confronto con il Barolo e il Barbaresco? L'affermano i produttori piemontesi, rimasti tra i pochi in Italia a proporre vini da invecchiamento, una filosofia enologica che merita gran rispetto ma contrasta con le leggi del mercato. Il consumatore beve sempre meno vino e lo vuole senza le controindicazioni di un elevato tenore alcolico. Per le sue eccezionali caratteristiche di vino digestivo e sgrassante, il Lambrusco è fatto su misura per i piatti della nostra sapida cucina, bisognosi delle sue bollicine profumate di viola per sembrare più leggeri. Un matrimonio fra i più riusciti della cucina italiana, che sposa un vino "selvatico" a una gastronomia non molto raffinata ma che non tradisce mai chi l¹apprezza.

 

Realizzazione: Luigi Farina ( lfarina52@hotmail.com )

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