ancora molto poco
la cultura gastronomica cinese, un postino di
Hong-Kong o di Shangai con l’hobby della cucina
può trasformarsi in cuoco a Roma con ancora
troppa facilità.
L'invasione della
ristorazione orientale nelle città europee
iniziò nei primi anni del secolo scorso e prese
piede dopo la prima guerra mondiale. Era una
conseguenza del colonialismo francese in
Indocina, inglese in India e olandese in
Indonesia. I militari si sposavano con
un’indigena e, alla fine della “ferma”, se la
portavano in patria, dove aprivano un
ristorante. A Parigi, dopo la guerra, erano
migliaia le coppie formate da un grosso soldato
della “Armée coloniale” e da un piccola
vietnamita. In quei locali, la conduzione
familiare consentiva prezzi molto contenuti. Fu
il primo punto a favore della ristorazione
cinese, soprattutto fra gli squattrinati e gli
studenti. Il fenomeno fu ancora più spiccato in
Olanda, anche perchè non vantando la loro cucina
grandi tradizioni, trionfò facilmente in ogni
strada d’Amsterdam o dell'Aja la cucina pimpante
e fantasiosa dell'Indonesia.
Anche quando il
colonialismo è finito, le sue radici sono
rimaste in Europa grazie ai ristoranti. Nelle
Indie ex olandesi si parla olandese e in Olanda
si mangia preferibilmente indonesiano. L’Italia,
malgrado antiche velleità colonialistiche, non
ha sofferto influenze gastronomiche dalle ex
colonie. In Cina fu troppo breve fu la sosta dei
marinai italiani a Tien-Tsin. Neanche dalla
Libia, dalla Somalia, dall’Eritrea o
dall’Etiopia sono giunte mode alimentari. In
Sicilia, nel Trapanese, si mangia il “cous cous”,
ma soltanto perchè Trapani è di fronte a Tunisi
e le due civiltà si integrano.
I primi ristoranti
cinesi a Roma e Milano comparvero nel secondo
dopoguerra, poi ne arrivarono altri, ma a ritmo
lento, uno o due l'anno. Alla fine degli Anni
70, le due “capitali” italiane ne annoveravano
una mezza dozzina, tutti di qualità abbastanza
buona, quanto meno discreta. Erano ancora tempi
in cui dalla Cina arrivavano cuochi veri. Ciò
non toglie che in quegli anni, che pure di
stranezze ne videro tante in tutti i campi,
andare al ristorante cinese fosse considerato
una serata stravagante. Si parlava di piatti a
base di cani e pitoni e le signore emettevano
gridolini di legittimo orrore, perchè alla cena
seguiva spesso la visione di uno dei documentari
alla moda, tipo “Mondo Cane” del giornalista
Gualtiero Jacopetti, che fu il precursore dei
servizi divulgativi coi quali gli Angela
avrebbero poi ottenuto giusto successo in tv.
Da quel momento,
il millenario gong cominciò a mandare messaggi
verso 1a Cina: “Venite in massa, perchè in
Italia c'è da campare per tutti!”. Ebbe così
inizio la crisi delle osterie e delle trattorie
a conduzione familiare, anche perchè ce n'erano
troppe e spesso erano perseguitate dal fisco o
in crisi per l’invecchiamento dei titolari o per
le diverse ambizioni dei figli che aspiravano a
un impiego fisso e meno faticoso, magari “sotto
lo Stato”. Così, con un pacchetto di milioni, i
locali passavano facilmente di mano, le pizzerie
diventavano ristoranti o friggitorie cinesi. I
nuovi gestori li decoravano sommariamente con
qualche drago laccato, ai fornelli si
insediavano giovanotti del tutto sprovveduti di
cucina e il locali dai nomi sempre suggestivi,
come “Drago Rosso”, “Sette Virtù” e “Porta della
Felicità” inalberavano l’insegna, richiamando
curiosi, una folla di studenti, piccole famiglie
del quartiere, soprattutto giovani senza molti
quattrini un po’ stufi di pizze con pomodoro
acido e mozzarella rinsecchita. Praticamente con
la stessa spesa (a quei tempi, 12-18.000 lire),
offrivano l’emozione di un pranzo esotico. Vuoi
mettere con la solita “margherita”?
Ebbe così inizio
un’immigrazione gastronomica che potremmo
definire selvaggia, al di fuori delle regole e
con trucchi di ogni genere, comprese le prime
gravi violazioni sulla legge che regola
l'ingresso degli stranieri in Italia. Le
questure, soprattutto quelle delle grandi città,
si dovettero scatenare e alcuni boss cinesi, che
sovrintendevano con sistemi mafiosi
all'importazione di sedicenti cuochi e
camerieri, finirono in galera o furono espulsi.
Molti gestori di questi ristoranti cinesi, la
galera l’avrebbero meritata anche e soprattutto
per l'infamia della cucina e per il più
sfacciato ripudio delle regole igieniche. I
prodotti erano della qualità più scadente che
esisteva sul mercato e il resto era scatolame di
grossolana produzione cinese (quella povera, per
intenderci). In qualcuno di questi
pseudo-ristoranti si utilizzano persino gli
avanzi dei piatti per comporne altri. Le liste
delle vivande erano apparentemente lunghe,
secondo lo stile cinese, ma si trattava sempre
delle stesse cose, quelle di minor costo e di
più facile realizzazione. La cucina cinese in
Italia, insomma, vendicava Bangkok, Singapore e
Hong Kong, dove già imperversavano migliaia di
locali con scritte accattivanti, “Spaghetti” o
“Pizza”, nei quali si ammannivano a basso prezzo
(come facevano i cinesi in Italia) orrendi
piatti di pasta e nefande pizze, preparate e
servite da italiani senz’arte ne parte,
trasformatiti in cuochi solo per la necessità di
sbarcare il lunario. In qualche, addirittura,
erano falsi italiani (soprattutto greci, turchi,
armeni e spagnoli), scelti tra persone piccole
coi capelli neri e i baffetti, camuffate da
pizzaioli patentati, nati a Sorrento o Amalfi.
Da qualche tempo,
la situazione è notevolmente evoluta ma resta
ancora abbastanza caotica. Come ci si deve
regolare, quindi, per operare delle scelte in
una graduatoria di qualità? In fondo, pare che
un ristorante cinese valga l'altro. Ci sono
alcune regole, che peraltro non valgono soltanto
per la cucina cinese. Primo: guardare il prezzo,
poichè un buon ristorante, con un cuoco
autentico e prodotti garantiti, deve offrire il
pranzo a un prezzo equivalente a un omologo
italiano. Al di sotto non ci possono essere che
pessima materia e scarsa professionalità.
Secondo: tenere conto dell'anzianità. I migliori
ristoranti (salvo qualche eccezione) sono quelli
da più tempo sulla piazza e rimasti in genere su
uno standard dignitoso. Terzo: valutare
l'arredamento. Una serie di false cineserie da
quattro soldi fa subito capire che la cucina
vale altrettanto. Quarto: leggere attentamente
il menù. Con un minimo d¹attenzione è facile
controllare se le proposte sono sempre le stesse
o se, soprattutto nei piatti da ordinare il
giorno prima (fondamento della grande cucina
cinese), ve ne sono di diverse dal solito.
Quinto, valutare il livello di qualità di piatti
tipici, come gli immancabili “involtini
primavera”, i “ravioli al vapore”, il “riso alla
cantonese”, il “pollo con bambù” o il “maiale
agrodolce”. In genere sono i più conosciuti e
possono essere confrontati con precedenti
esperienze.
Tutto ciò non deve
suonare come un apprezzamento negativo della
cucina cinese. Personalmente ho ammirazione per
quella che considero la più “colta” cucina del
mondo. Oltre le sue frontiere, però, il discorso
cambia e non soltanto in Italia. Essendo una
gastronomia tecnicamente molto difficile, è
quasi inesportabile. Di solito, quel che esce
dai vasti confini nazionali è il peggio delle
tante cucine cinesi, alcune delle quali
prelibate, altre molto più popolari e proprio
per questo, benchè male, le più copiate. Fra un
grande ristorante di Hong Kong o Shangai e la
maggioranza di quelli di Roma o Parigi corre la
stessa differenza che c’è l’Enoteca Pinchiorri
di Firenze e le mille sedicenti italiane
“pizzerie-spaghetterie” in Estremo Oriente.
Qualche eccezione c’è, ma a metà strada fra gli
splendori della vera cucina cinese e gli orrori
di quella comunemente importata in Italia. Anche
questi locali, tuttavia, sono in grado di farvi
scoprire, se ancora non la conoscete, la più
misteriosamente raffinata civiltà gastronomica
che l’umanità abbia prodotto.
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