Aprile

2003

Spaghetti Italiani - Portale di Gastronomia

Aprile

2003



L’incontrollata proliferazione di ristoranti cinesi (e orientali in genere) in ogni città italiana lusinga in nostro cosmopolitismo. Chi ha girato un po’ di mondo e ha visitato, oltre agli Stati Uniti, altre nazioni dell’Occidente europeo, note che certe strade di Roma o Milano sono ormai costellate di ristoranti cinesi, coi paralumi e le insegne laccate e dorate, come a Parigi o a Londra. Anche da noi cominciano a sorgere piccole Chinatown. Il fenomeno, per la verità, non ha nulla d’eccezionale, se non che da noi arriva in ritardo di circa mezzo secolo. L’Italia, insomma, subisce un'invasione di retroguardia.

I cinesi che vogliano trasferirsi in Europa hanno scoperto che il territorio più facile è l’Italia, sia perchè non è ancora così satura come la Francia o l’Inghilterra (ma persino il Belgio, la Germania e la Svizzera) sia perchè, conoscendo gli italiani

ancora molto poco la cultura gastronomica cinese, un postino di Hong-Kong o di Shangai con l’hobby della cucina può trasformarsi in cuoco a Roma con ancora troppa facilità.

L'invasione della ristorazione orientale nelle città europee iniziò nei primi anni del secolo scorso e prese piede dopo la prima guerra mondiale. Era una conseguenza del colonialismo francese in Indocina, inglese in India e olandese in Indonesia. I militari si sposavano con un’indigena e, alla fine della “ferma”, se la portavano in patria, dove aprivano un ristorante. A Parigi, dopo la guerra, erano migliaia le coppie formate da un grosso soldato della “Armée coloniale” e da un piccola vietnamita. In quei locali, la conduzione familiare consentiva prezzi molto contenuti. Fu il primo punto a favore della ristorazione cinese, soprattutto fra gli squattrinati e gli studenti. Il fenomeno fu ancora più spiccato in Olanda, anche perchè non vantando la loro cucina grandi tradizioni, trionfò facilmente in ogni strada d’Amsterdam o dell'Aja la cucina pimpante e fantasiosa dell'Indonesia.

Anche quando il colonialismo è finito, le sue radici sono rimaste in Europa grazie ai ristoranti. Nelle Indie ex olandesi si parla olandese e in Olanda si mangia preferibilmente indonesiano. L’Italia, malgrado antiche velleità colonialistiche, non ha sofferto influenze gastronomiche dalle ex colonie. In Cina fu troppo breve fu la sosta dei marinai italiani a Tien-Tsin. Neanche dalla Libia, dalla Somalia, dall’Eritrea o dall’Etiopia sono giunte mode alimentari. In Sicilia, nel Trapanese, si mangia il “cous cous”, ma soltanto perchè Trapani è di fronte a Tunisi e le due civiltà si integrano.

I primi ristoranti cinesi a Roma e Milano comparvero nel secondo dopoguerra, poi ne arrivarono altri, ma a ritmo lento, uno o due l'anno. Alla fine degli Anni 70, le due “capitali” italiane ne annoveravano una mezza dozzina, tutti di qualità abbastanza buona, quanto meno discreta. Erano ancora tempi in cui dalla Cina arrivavano cuochi veri. Ciò non toglie che in quegli anni, che pure di stranezze ne videro tante in tutti i campi, andare al ristorante cinese fosse considerato una serata stravagante. Si parlava di piatti a base di cani e pitoni e le signore emettevano gridolini di legittimo orrore, perchè alla cena seguiva spesso la visione di uno dei documentari alla moda, tipo “Mondo Cane” del giornalista Gualtiero Jacopetti, che fu il precursore dei servizi divulgativi coi quali gli Angela avrebbero poi ottenuto giusto successo in tv.

Da quel momento, il millenario gong cominciò a mandare messaggi verso 1a Cina: “Venite in massa, perchè in Italia c'è da campare per tutti!”. Ebbe così inizio la crisi delle osterie e delle trattorie a conduzione familiare, anche perchè ce n'erano troppe e spesso erano perseguitate dal fisco o in crisi per l’invecchiamento dei titolari o per le diverse ambizioni dei figli che aspiravano a un impiego fisso e meno faticoso, magari “sotto lo Stato”. Così, con un pacchetto di milioni, i locali passavano facilmente di mano, le pizzerie diventavano ristoranti o friggitorie cinesi. I nuovi gestori li decoravano sommariamente con qualche drago laccato, ai fornelli si insediavano giovanotti del tutto sprovveduti di cucina e il locali dai nomi sempre suggestivi, come “Drago Rosso”, “Sette Virtù” e “Porta della Felicità” inalberavano l’insegna, richiamando curiosi, una folla di studenti, piccole famiglie del quartiere, soprattutto giovani senza molti quattrini un po’ stufi di pizze con pomodoro acido e mozzarella rinsecchita. Praticamente con la stessa spesa (a quei tempi, 12-18.000 lire), offrivano l’emozione di un pranzo esotico. Vuoi mettere con la solita “margherita”?

Ebbe così inizio un’immigrazione gastronomica che potremmo definire selvaggia, al di fuori delle regole e con trucchi di ogni genere, comprese le prime gravi violazioni sulla legge che regola l'ingresso degli stranieri in Italia. Le questure, soprattutto quelle delle grandi città, si dovettero scatenare e alcuni boss cinesi, che sovrintendevano con sistemi mafiosi all'importazione di sedicenti cuochi e camerieri, finirono in galera o furono espulsi. Molti gestori di questi ristoranti cinesi, la galera l’avrebbero meritata anche e soprattutto per l'infamia della cucina e per il più sfacciato ripudio delle regole igieniche. I prodotti erano della qualità più scadente che esisteva sul mercato e il resto era scatolame di grossolana produzione cinese (quella povera, per intenderci). In qualcuno di questi pseudo-ristoranti si utilizzano persino gli avanzi dei piatti per comporne altri. Le liste delle vivande erano apparentemente lunghe, secondo lo stile cinese, ma si trattava sempre delle stesse cose, quelle di minor costo e di più facile realizzazione. La cucina cinese in Italia, insomma, vendicava Bangkok, Singapore e Hong Kong, dove già imperversavano migliaia di locali con scritte accattivanti, “Spaghetti” o “Pizza”, nei quali si ammannivano a basso prezzo (come facevano i cinesi in Italia) orrendi piatti di pasta e nefande pizze, preparate e servite da italiani senz’arte ne parte, trasformatiti in cuochi solo per la necessità di sbarcare il lunario. In qualche, addirittura, erano falsi italiani (soprattutto greci, turchi, armeni e spagnoli), scelti tra persone piccole coi capelli neri e i baffetti, camuffate da pizzaioli patentati, nati a Sorrento o Amalfi.

Da qualche tempo, la situazione è notevolmente evoluta ma resta ancora abbastanza caotica. Come ci si deve regolare, quindi, per operare delle scelte in una graduatoria di qualità? In fondo, pare che un ristorante cinese valga l'altro. Ci sono alcune regole, che peraltro non valgono soltanto per la cucina cinese. Primo: guardare il prezzo, poichè un buon ristorante, con un cuoco autentico e prodotti garantiti, deve offrire il pranzo a un prezzo equivalente a un omologo italiano. Al di sotto non ci possono essere che pessima materia e scarsa professionalità. Secondo: tenere conto dell'anzianità. I migliori ristoranti (salvo qualche eccezione) sono quelli da più tempo sulla piazza e rimasti in genere su uno standard dignitoso. Terzo: valutare l'arredamento. Una serie di false cineserie da quattro soldi fa subito capire che la cucina vale altrettanto. Quarto: leggere attentamente il menù. Con un minimo d¹attenzione è facile controllare se le proposte sono sempre le stesse o se, soprattutto nei piatti da ordinare il giorno prima (fondamento della grande cucina cinese), ve ne sono di diverse dal solito. Quinto, valutare il livello di qualità di piatti tipici, come gli immancabili “involtini primavera”, i “ravioli al vapore”, il “riso alla cantonese”, il “pollo con bambù” o il “maiale agrodolce”. In genere sono i più conosciuti e possono essere confrontati con precedenti esperienze.

Tutto ciò non deve suonare come un apprezzamento negativo della cucina cinese. Personalmente ho ammirazione per quella che considero la più “colta” cucina del mondo. Oltre le sue frontiere, però, il discorso cambia e non soltanto in Italia. Essendo una gastronomia tecnicamente molto difficile, è quasi inesportabile. Di solito, quel che esce dai vasti confini nazionali è il peggio delle tante cucine cinesi, alcune delle quali prelibate, altre molto più popolari e proprio per questo, benchè male, le più copiate. Fra un grande ristorante di Hong Kong o Shangai e la maggioranza di quelli di Roma o Parigi corre la stessa differenza che c’è l’Enoteca Pinchiorri di Firenze e le mille sedicenti italiane “pizzerie-spaghetterie” in Estremo Oriente. Qualche eccezione c’è, ma a metà strada fra gli splendori della vera cucina cinese e gli orrori di quella comunemente importata in Italia. Anche questi locali, tuttavia, sono in grado di farvi scoprire, se ancora non la conoscete, la più misteriosamente raffinata civiltà gastronomica che l’umanità abbia prodotto.
 

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