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Testi di Gino Adamo - Data ultima revisione: 3 Ottobre 2001

Pagina realizzata da Luigi Farina (lfarina52@hotmail.com)

La gastronomia

Scritta "Cenni storici"

La gastronomia nella storia e nella letteratura



 

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Zeno partecipa ad un triste banchetto

 

Da mio suocero trovai che la compagnia s’era messa in quel momento a tavola. Mi domandarono notizie ed io, per non compromettere la gaiezza di quel convito, dissi che il Copler viveva tuttavia e che c’era dunque qualche speranza. A me parve che quell’adunanza fosse ben triste. Forse tale impressione si fece in me alla vista di mio suocero condannato ad una minestrina e ad un bicchiere di latte, mentre attorno a lui tutti si caricavano dei cibi più prelibati. Aveva tutto il suo tempo, lui, e lo impiegava per guardare in bocca agli altri. Vedendo che il signor Francesco si dedicava attivamente all’antipasto, mormorò: “E pensare che ha due anni più di me!”
Poi, quando il signor Francesco giunse al terzo bicchierino di vino bianco, brontolò sottovoce: “E il terzo! Che gli andasse in tanto fiele!”
L’augurio non m’avrebbe disturbato se non avessi mangiato e bevuto anch’io a quel tavolo, e non avessi saputo che la medesima metamorfosi sarebbe stato augurata anche al vino che passava per la mia bocca. Perciò mi misi a mangiare e a bere di nascosto. Approfittavo di qualche momento in cui mio suocero ficcava il grosso naso nella tazza del latte o rispondeva a qualche parola che gli era stata rivolta, per inghiottire dei grossi bocconi o per tracannare dei grandi bicchieri di vino. Alberta, solo per il desiderio di far ridere la gente, avvisò Augusta ch’io bevevo troppo. Mia moglie scherzosamente mi minacciò con l’indice. Questo non fu male (…) così non valeva più la pena di mangiare di nascosto. Giovanni, che fino ad allora non s’era quasi ricordato di me, mi guardò sopra gli occhiali con un’occhiataccia di vero odio. Disse: “Io non ho mai abusato di vino o di cibo. Chi ne abusa non è un vero uomo, ma un … (…)”. Per effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell’animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta. Attaccai mio suocero dal suo lato più debole: la malattia.


Italo Svevo: “La coscienza di Zeno”

 

 

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Un tipo alla mano e generoso

 

«Si trattava di un piccolo bar, situato in una via dietro il boulevard de la Madeleine, dove non andavano altro che fantini, bookmakers e persone appassionate di corse. Vi si potevano consumare pasti sbrigativi, uova e prosciutto, salsicce e cavoli, ed era là che Jordan mangiava di solito. Era anche là che combinava la maggior parte dei suoi affari. Il giornalista aveva inoltre appreso che Jordan era popolare tra i frequentatori del bar. (…) quando faceva un grosso guadagno spendeva e spandeva per tutti. Era un uomo cordiale, alla mano e sempre pronto ad offrire da bere».


W.S. MAUGHAM “VACANZE DI NATALE ”, 1939. 
Oscar Mondadori 1978 (pp. 110-111)

 

 

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Una buona forchetta

«Eravamo giunti al ristorante, un locale rumoroso, affollato, come mi parve, di uomini del genere di Giacinti: viaggiatori di commercio, agenti di cambio, negozianti, industriali di passaggio. Giacinti entrò per primo e, consegnando il pastrano e il cappello al ragazzo, domandò: “Il mio solito tavolo è libero?”
“Si, signor Giacinti”
Era un tavolo nel vano di una finestra. Giacinti sedette stropicciandosi le mani, quindi domandò: “Sei una buona forchetta tu?”
“Credo di si”, risposi impacciata.
“Bene, mi fa piacere … voglio che a tavola si mangi … Gisella, per esempio, non voleva mai mangiare…aveva paura d’ingrassare, diceva lei … tutte sciocchezze: ogni cosa a suo tempo…a tavola si mangia”. 
Egli serbava un vero rancore contro Gisella.
“Ma è vero”, dissi timidamente, “che a mangiar s’ingrassa … e certe donne non vogliono ingrassare”
“Tu sei di quelle?”
“Io no… ma infatti dicono che sono troppo forte”.
“Non dargli retta: tutta invidia…vai benissimo come sei, te lo dico io che me ne intendo”. E come per rassicurarmi mi accarezzò paternamente la mano. Venne il cameriere e Giacinti gli disse: “Intanto via questi fiori: mi danno fastidio… e poi il solito… siamo intesi eh… e presto”.
Quindi rivolto a me: “Mi conosce e sa quello che mi piace… lascia fare a lui… vedrai che non avrai di che lamentarti”.
Non ebbi infatti di che lamentarmi. Tutti i piatti che si seguirono sulla nostra tavola furono ghiotti, se non proprio fini, e molto abbondanti. Giacinti mostrava un grande appetito e mangiava con una specie di enfasi, a testa bassa, impugnando solidamente coltello e forchetta, senza guardarmi né parlare, come se fosse stato solo. Egli era veramente assorbito dall’atto di mangiare e, nella sua avidità, perdeva persino quella sua calma tanto vantata, facendo nello stesso tempo più gesti, quasi avesse temuto di non fare a tempo e di rimanere digiuno. Si ficcava un pezzo di carne in bocca, correva con la mano sinistra a spezzare un morsello di pane, lo addentava, con l’altra mano si versava un bicchiere di vino e beveva prim’ancora d’aver finito di masticare. Tutto questo sbattendo le labbra, roteando le pupille e scuotendo ogni tanto il capo come fanno i gatti quando il boccone è troppo grosso. Io invece, contrariamente al mio solito, non avevo fame. Era la prima volta che mi accingevo a far l’amore con un uomo che non amavo e neppure conoscevo, e lo osservavo con attenzione, studiando i miei sentimenti e cercando di immaginarmi come me la sarei cavata».


ALBERTO MORAVIA: “LA ROMANA”

BOMPIANI 1965 (pp. 163-165)

 

 

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Un brindisi rischioso

 

Lasciammo Napoli per riprendere la navigazione (…). Mi è rimasto impresso un episodio, che ebbe luogo mentre già attraversavamo l’Atlantico. Il comandante della nave invitò Umanskij e me nella sua cabina. Un invito di cortesia in coincidenza col 7 novembre, ventiduesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Offrendoci dell’ottimo vino italiano, brindò: “Alla Rivoluzione d’Ottobre, a Lenin!”
Fummo toccati da tanta attenzione (…). L’episodio infatti avveniva mentre il fascismo imperava in Italia. (…) Ci dicemmo che se il duce ne avesse avuto sentore, il nostro comandante non l’avrebbe certo passata liscia.


Dalle “MEMORIE” di Andrej Gromyko

edito da Rizzoli 1989 (p.37)

 

 

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I gelsi di Bagheria

 

Gli arabi hanno portato in Sicilia il baco da seta, l’ulivo e il fico d’India. Gli spagnoli, assieme ai loro cavalli e ai loro guerrieri, la coltivazione dell’arancio dolce. Mentre gli aragonesi hanno insegnato l’uso della canna da zucchero. Da bambina, andavo a caccia di gelsi, con un gruppo di bambini bagarioti, nei campi intorno alla villa. Ci macchiavamo i vestiti e per questo venivamo rimproverati dalle madri. Ma quei frutti gonfi, teneri, che tingevano la lingua di blu e di rosso, erano irresistibili.
Oggi non ci sono più gelsi nella zona di Bagheria, li hanno tutti tagliati. Ma sul molo di Mondello, la marina di Palermo, ancora oggi si possono trovare dei fruttivendoli che, per pochi soldi, ti mettono in mano un cartoccio di carta da zucchero con dentro una manciata di gelsi succosi e profumati.


Dacia Maraini: “BAGHERIA”

Rizzoli 1993 (p.37)

 

 

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Baci e manicaretti fanno dimenticare il grande amore

 

[Giacomo Casanova] si congedò da Ester promettendole che sarebbe tornato presto. Ma sul punto di partire, ricevette una lettera di Manon, che gli annunciava il suo imminente matrimonio con un architetto. Apriti cielo! Montò su tutte le furie, stracciò la missiva, minacciò d’uccidere il rivale, infine si mise a letto in preda a un vero e proprio choc. Era la sua fidanzata, anzi la sua promessa sposa: come aveva lei osato, senza il suo consenso, legarsi ad un altro uomo? Ester si sforzò di rabbonirlo con baci e manicaretti, che lei stessa gli confezionò: «Grazie a questa donna [confesserà anni dopo Casanova nelle sue MEMORIE, ndr] passai rapidamente dalla morte alla vita mangiando con un appetito da lupo». E alla Manon non pensò più.


Roberto Gervaso: “CASANOVA”

Rizzoli editore, 1974

 

 

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