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Testi di Gino Adamo. Pagina realizzata da Luigi Farina

Data ultima revisione: 3 Agosto 2001

La gastronomia

Scritta "Cenni storici"

La gastronomia nella storia e nella letteratura



 

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Il re Sole a tavola

 

Il Rinascimento vede il trionfo della cucina italiana, che cede poi lo scettro a quella francese. A tavola fa la sua apparizione la forchetta, si ritorna al lusso degli antichi. 
In Francia, con l’avvento di Luigi XIV, si raggiunge il primato mondiale gastronomico, che il Paese transalpino conserverà fino all’età moderna. 
Il sovrano è un formidabile mangiatore. Ogni giorno il Re Sole fa onore a ben quattro minestre diverse, un fagiano, una pernice, legumi in insalata, montone castrato in umido e all’aglio, prosciutto di Magonza, dolce, frutta e uova sode. Anche grazie al suo vigoroso appetito il re contribuisce alla gloria culinaria della Francia

 

 

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Il risottaccio di Curzio Malaparte

 

Curzio Malaparte, il grande scrittore e giornalista toscano, autore, fra l’altro, di libri come “Kaputt” e “La pelle” (da cui sono state tratte riduzioni cinematografiche di successo), nel giugno del 1957, mentr’era ricoverato in ospedale (a causa di un tumore, che alla fine lo ucciderà), aveva voluto festeggiare il suo cinquantanovesimo compleanno con una pietanza che sempre gli preparava la madre: un risotto alla milanese, di cui avvertiva una gran nostalgia. S’era informato con l’infermiera se sarebbe stato possibile accontentarlo: la suora che lo seguiva con molta dedizione, gli assicurò che se ne sarebbe occupata personalmente. E mantenne la promessa.
Ma il giorno appresso lo scrittore, di malumore, commentò: «Mi han fatto mangiare un risottaccio pieno di grasso, che m’è rimasto sullo stomaco. E il cuore se n’è molto affaticato». 
Gli amici del malato indagarono: e appurarono in cucina che in realtà la buona suora aveva cotto una pietanza veramente perfetta, con la giusta dose di condimento, lo zafferano quanto ce ne vuole, e via dicendo. Il tutto cucinato appuntino. Tant’è che lo scrittore aveva mangiato di gusto e digerito senza difficoltà la pietanza. Anzi gli era piaciuta così tanto da richiederne, qualche ora dopo, il bis. «Ma n’era rimasto?», domandò lo scrittore. Un’infermiera compiacente lo rassicurò: n’era rimasto. E gli venne servito prontamente, ma per un disguido in cucina gli avevano portato stavolta un piatto cotto malamente e condito senza misura. Malaparte lo aveva mangiato voracemente lo stesso, e però quel risotto riscaldato gli s’era fermato sullo stomaco, e lo aveva fatto star male e reso di malumore tutto il giorno. La domenica 9 giugno, per il suo genetliaco, gli erano arrivati massicciamente doni e messaggi augurali da tutto il mondo, che avevano finito per riempire la stanza. 
«Vedete», osservò ironico Malaparte agli amici in visita, «mi par d’essere un vigile urbano il giorno dell’Epifania!».

 

 

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Il segreto del riso piemontese

Nell’aprile del 1787 (due anni prima della Rivoluzione francese), Thomas Jefferson, il futuro terzo presidente degli Stati Uniti, all’epoca ambasciatore americano a Parigi, riferisce in una dettagliata lettera inviata al Segretario di Stato John Jay, il risultato dell’inchiesta da lui personalmente condotta in Italia, nel Vercellese, per tentare di spiegare come mai il riso americano (coltivato nelle grandi risaie della Carolina del Sud e in Georgia) fosse così scadente rispetto a quello piemontese (fra l’altro il riso americano non manteneva la cottura). L’indagine era molto riservata, e fu circondata fin dall’inizio, dalla massima discrezione. Jefferson, nel suo viaggio in Piemonte, aveva acquistato grossi quantitativi di riso che aveva poi spedito in patria perché vi fosse esaminato dagli agronomi. I quali giunsero alla conclusione che il segreto della migliore resa del riso italiano stava tutto nella speciale tecnica piemontese della brillatura.
Iniziava così, in sordina, l’epoca dello «spionaggio industriale», tanto florido e largamente praticato ai giorni nostri.

 

 

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Parigi, gastronomia come "joie de vivre"

 

A Parigi, capitale mondiale della gastronomia raffinata, ci sono, com’è noto, moltissimi ristoranti, forse come in nessun’altra metropoli del mondo. I parigini amano mangiare fuori casa almeno un paio di volte alla settimana. Per loro la cena è un delizioso rito mondano. Nella patria del buon vino e di un assortimento di formaggi unico al mondo (almeno quattrocento diversi tipi), la serata a tavola trascorre allegramente distensiva. Diviene pura gioia di vivere. 
In fatto di gastronomia nella capitale francese ci sono locali per tutti i gusti, c’è solo l’imbarazzo della scelta: dai celebri “café”, con i tavolini all’aperto, per le colazioni e lo spuntino ricercato, ai classici ristoranti, dal décor sempre raffinato e le portate prelibate. Numerose anche le brasserie, che talora vagheggiano uno stile vecchia birreria viennese. Sempre rinomati i bistrot, luoghi un tempo non molto dissimili dalle nostre trattorie, ossia di stile popolare ed economico: oggi divenuti quasi tutti posti raffinati (e di conseguenza piuttosto cari). 
Parigi è ovviamente anche la capitale incontrastata dell’alta moda e dei prodotti di lusso, per non dire della cultura e dell’arte: ma questo è un altro discorso. Qui ci siamo limitati alle delizie del palato, che - anche da sole - varrebbero un viaggio nella splendida “Ville Lumiere”.

 

 

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Sorrisi all'agro dolce - Parte 1

 

Davanti ad una casa colonica un gruppo di contadini è intento alla mungitura, quando passa una vettura proveniente dalla città, l’auto rallenta, mentre un ragazzino sporge la testa per domandare: "Scusate, brava gente: siete mungitori?"
Dall’altra parte un coro di risentite proteste: "come ti permetti, impertinente! - ribatte uno dei contadini - Non vedi che siamo mungi vacche!"

 

 

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Tagliare la carne è un'arte

 

«Tagliare le carni è piuttosto difficile, quando non si hanno nozioni di anatomia. (…) Per prima cosa si osservi attentamente la direzione delle fibre, e si tagli poi in in senso perpendicolare a queste. E’ facile notare che una fetta di carne tagliata così, si presta alla masticazione in senso parallelo alle fibre muscolari. Quando invece viene morsa in senso perpendicolare alle fibre muscolari, sembra dura anche la più tenera» 
Cfr. Paul Bocuse: “La Nuova Cucina”, ed. BUR 1987

 

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